Marina con natura morta, 1929
Filippo De Pisis (Ferrara 1896 – Milano 1956)
Marina con natura morta
olio su tela
1929
cm 68,5 x 89
Luigi Filippo Tibertelli talento creativo e versatile, dimostra fin da giovane un temperamento intellettuale e inclinazioni letterarie. Nel 1916 si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, dove si laurea nel 1920 con una tesi sui pittori gotici ferraresi. Iniziò la sua attività come letterato e critico d’arte, collaborando a molte testate non soltanto locali. Fin dai primi scritti, recupera, dall’avo Filippo Tibertelli de Pisis, la parte decaduta del cognome firmandosi “Filippo de Pisis”.
L’interesse e la passione per la pittura lo spingono a vivere in varie città come Roma, Venezia e Milano, Parigi e Londra, alla ricerca di nuovi contesti culturali e artistici.
Sin dai primi mesi romani inizia a comporre novelle, e altri scritti, che anticipano ciò che verrà rappresentato nelle sue nature morte con paesaggi. Nel 1920 espone per la prima volta disegni e acquerelli nella galleria d’arte di Anton Giulio Bragaglia in Via Condotti.
La sua pittura è influenzata in un primo momento dall’incontro con Giorgio de Chirico, Alberto Savinio e Carlo Carrà, con i quali negli anni intrattenne un fitto carteggio, avvenuto a Ferrara intorno al 1915. Rimane affascinato dal loro modo di concepire la pittura a tal punto da condividerne lo stile metafisico nella prima parte della sua produzione. Ne è un esempio il quadro Marina con natura morta.
Le conchiglie, la salacca e la figurina allungata sul lembo della spiaggia sono ingredienti comuni delle nature morte di de Pisis, spesso ambientate su uno sfondo di mare. Provengono dalle mirabilia raccolte dal pittore da giovane, come appunto le conchiglie o le erbe di campo, e dalla pittura metafisica di Carrà e di de Chirico, da cui riprende soggetti e impostazione spaziale e temporale. Un tempo sospeso o meglio bloccato nel presente, un presente di decadenza e di solitudine, di abbandono, di imminente putrefazione dove queste presenze si consumano e si dissolvono infinitamente. Si tratta di presenze ridotte ad apparenze. Il transito di queste apparenze rinvia a un doloroso sentimento esistenziale: gli estremi del carpe diem e di una coscienza intristita dal destino si rincorrono nella poetica di de Pisis, avida e disperata.
Il periodo parigino, iniziato nel marzo del 1925, registra la sua piena maturità artistica. Dipinge en plein air come i grandi vedutisti ed entra in contatto con Édouard Manet e Camille Corot, Henri Matisse e i Fauves. Sono anni in cui realizza alcune tra le sue tele più celebri: temi ricorrenti, oltre alle nature morte, sono i paesaggi urbani e i nudi maschili. Ulteriore ispirazione proviene da Manet e Renoir dai quali apprende la ricchezza dei colori intensi e delle atmosfere luminose, pur mantenendo gli echi del colorismo veneto.
Nonostante la sua produzione sia legata principalmente a Parigi, continua a esporre anche in Italia e inizia a scrivere articoli per «L’Italia Letteraria» e altre riviste. Entra nel circolo degli artisti italiani a Parigi, un gruppo di pittori che comprendeva Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Massimo Campigli e altri.
Un cambiamento di stile avviene nel 1935 durante un soggiorno a Londra: il suo tratto pittorico diventa spezzato, quasi sincopato, e la sua produzione artistica risente dei suoi interessi esoterici.
Nel 1939, dopo il periodo londinese che gli serve per allargare il mercato, rientra in Italia stabilendosi a Milano, e poi si sposta in diverse città italiane.
Nel 1943 si trasferisce a Venezia dove si lascia ispirare dalla pittura dei maestri veneziani del XVIII secolo.
Dopo un breve soggiorno a Parigi tra il 1947 e il 1948, rientra in Italia con i primi sintomi di una malattia che lo condurrà alla morte. La XXV Biennale di Venezia, la prima del dopoguerra, gli dedica una sala personale con trenta opere dal 1926 al 1948. I dipinti del suo ultimo periodo, realizzati durante il ricovero ospedaliero, prendono ispirazione dai soggetti che trova nella serra della clinica: è questo il periodo delle cosiddette “tele di ragno”, quadri bianchi e desolati.